ROBERTO CELLAI
IL CASTELLO DI RENUCCINO E IL POPOLO DI SANTA MARIA A FAELLA
(Notizie di un edificio scomparso e di un villaggio aperto nel Contado Fiorentino)
L’AMBIENTE E LA STORIA ANTICA
Faella non ha l’incantesimo di San Gimignano, né l’affascinante scenografia dei borghi antichi. Soffocata nella moderna ottusità è soltanto un modesto paese, insignificante dal punto di vista architettonico.
Collocata nella provincia di Arezzo che rinnegherebbe a favore di un’antica fiorentinità e in un comune, quello di Piandiscò, spesso sdegnato per vecchie smanie campanilistiche o remoti dualismi, Faella non ha storie da raccontare, se non quelle del sudore della sua gente china nei campi, quelle degli ultimi avvenimenti bellici, o altre che noi ancora non conosciamo.
Eppure questo borgo ha origini antiche, anche se le informazioni pervenuteci sono scarse e tutte da verificare. Sicuramente i suoi più lontani abitanti furono l’elephans meridionalis e l’ursus etruscus i cui resti, qui rinvenuti (1), sono conservati al Museo Paleontologico di Montevarchi. Del resto nelle caratteristiche balze che lambiscono l’abitato è intuibile la sua storia geologica, che è poi quella del Valdarno Superiore.
Il Valdarno Superiore, scaturisce dal prosciugamento di un lago pliocenico, è una delle vallate che, come il Valdarno Fiorentino, il Casentino e il Mugello, contraddistinguono il territorio che faceva capo a Firenze. Questa terra possiede originali qualifiche geologiche e geografiche che ritengo inutile dettagliare in particolari descrizioni, per altro già avvenute (2).
Il luogo dove sorge il nostro paese si presenta come una ristretta conca, circondata da colline e ripiani. Le colline sono costituite da argille di colore bruno in superficie e azzurre in profondità. I ripiani sono formati da sabbie argillose e ciottoli gialli. Il territorio è costituito prevalentemente da materiali alluvionali: limi, argille, sabbie e ghiaie. Sotto a questi materiali si rileva un banco di argilla azzurro (turchino), ricco d’acqua. La vegetazione è formata da boschi (prevalgono la quercia e l’acacia), viti e colture erbacee.
La località prende il nome dal torrente che le scorre accanto. Nella ricerca dell’origine del toponimo Faella, le ipotesi di Silvio Pieri (3) che elenca il vocabolo nei nomi locali da nomi di piante sotto il termine di fagus (faggio), risultano inesatte.
Nella zona si rileva una toponomastica di origine germanica: Brolio, Foracava, Montecarelli. Di origine latina, con derivazione dalle condizioni del suolo sono i toponimi come Costa, Scala; dal nome di piante derivano Barberaia, Carpine, Ontaneto, Pratiglioni, Rantigioni; dal nome di animale Corbinaia. Invece, Castellare, è il termine usato per l’indicazione di castello abbandonato o distrutto.
Naturalmente la storia di Faella è intrecciata a quella del Valdarno, in merito, quindi, rimando alle pagine di più autorevoli e preparati ricercatori, mentre da parte mia, per meglio orientarmi, mi limito a brevi indicazioni storiche.
Nel Valdarno la storia vera e propria inizia con gli etruschi, pur essendo questi territori abitati anche nella preistoria. Le testimonianze, infatti, accertano che la fertilità di queste contrade e l’accrescersi dell’importanza commerciale di Arezzo, favorì una forte colonizzazione etrusca che si sviluppò sull’area collinare della riva destra dell’Arno, lungo la direttrice Arezzo-Fiesole. Più tardi i romani, dopo che ebbero assorbito il popolo etrusco, fondarono numerose colonie militari tra le quali quella di Firenze e, ovviamente, anche i nostri territori subirono l’influsso di Roma. I riferimenti sono dati dai resti di strade e d’insediamenti, riferibili al periodo imperiale (4).
Le vicende dell’impero sono note, come pure quelle riguardanti lo sviluppo di Firenze, o meglio di Florentia, che con il trascorrere dei tempi si trasformò nella principale città dell’Etruria. Da questo momento, con l’incremento della colonia fiorentina, iniziò per tutto il Valdarno un’epoca rigorosamente legata al destino di questa città.
L’importanza di Firenze coincise anche con un potenziamento viario. Nel 123 d.C., infatti, l’imperatore Adriano fece modificare la via Cassia con una nuova arteria di congiungimento da Chiusi a Firenze. Questo itinerario, posto sulla riva sinistra dell’Arno, per un certo tratto si snodava tra il Valdarno e il Chianti, quasi parallelo alla Cassia Vetus edificata sulla riva opposta intorno al 180 a.C., forse su tracciato etrusco, e adesso identificabile con la strada dei Sette Ponti.
Sicuramente questo incremento viario accrebbe i siti romani nelle zone collinari del Valdarno. L’occupazione di Roma, infatti, è riscontrata anche nella toponomastica, poiché i nomi dei fondi coltivati in questo periodo sono formati dall’indicazione del proprietario con l’aggiunta del termine ano (p. es.: Cappiano, Certignano, Morgnano, Moriano, Persignano, Pulicciano) (5).
Il lento trascorrere dei secoli, che qui saltiamo a piè pari, trascinava l’impero romano verso le fatali vicende. I nemici di Roma e gli eventi contro di essa si moltiplicarono, portandola così verso il definitivo crollo che è normalmente indicato con il 476 d.C.
Dopo i saccheggi di Roma, nel 410 a causa dei Visigoti e nel 455 dai Vandali, che ormai dimostrarono l’incapacità di resistenza da parte dell’impero, le guerre e le distruzioni provocate dalle invasioni barbariche coinvolsero tutte le terre romane, compreso l’intero contado fiorentino.
Successivamente anche l’invasione longobarda provocò guerre e distruzione, soprattutto nel Casentino e nelle zone limitrofe del Pratomagno, dato che Arezzo si trovava sotto la sfera di influenza dei Bizantini che, alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, si definirono i veri eredi di Roma.
Nei periodi seguenti il processo di disboscamento e di prosciugamento delle zone paludose, certamente doveva permettere l’acquisizione di nuove terre, anche se la viabilità continuava a svilupparsi a mezza costa, evitando i fondovalle ancora impaludati.
La Cassia Vetus, la più antica strada (6) che congiungeva Fiesole e Firenze con l’Etruria, passava da Pontassieve, Pelago, Pitiana, Cascia, Piandiscò, Castelfranco, Certignano, Gropina, San Giustino, Arezzo. Sulle ultime propaggini del Pratomagno, oltre le sorgenti dei torrenti che portano le loro acque verso l’Arno, un altopiano conduce da Pietrapiana a San Giustino. Questo rilievo pianeggiante aveva assicurato la singolare opportunità di costruire un valido percorso, identificato come accennato in precedenza con la strada dei Sette Ponti, sopra i territori impaludati della Valle dell’Arno dove, allineate lungo la via, sorsero le chiese plebane medievali di Pitiana, Cascia, Sco, Gropina, San Giustino.
Le caratteristiche storico-artistiche di queste antiche chiese sono state descritte da vari autori (7). Molti studiosi sostengono, sicuramente con ragione, che le pievi si formarono seguendo l’antico sistema dei pagi romani, ottenendo verso l’VIII sec. d.C. un definitivo ordinamento religioso e organizzativo. Con l’evoluzione generale e l’incremento demografico sviluppatosi nei secoli XI-XIV, la disposizione ecclesiastica fu disciplinata verso nuove forme organizzative: i popoli delle comunità locali medievali, infatti, furono riuniti intorno alle pievi ormai trasformate, pur conservando il loro ruolo religioso, in vere e proprie composizioni socio-territoriali.
IL PIVIERE DI SCO E IL VILLAGGIO APERTO DI FAELLA
La Pieve di S. Maria a Sco, affidata alla giurisdizione dei vescovi di Fiesole, è ricordata per la prima volta il 12 marzo 1009, in un atto di donazione da parte della famiglia degli Uberti a favore dell’Abbazia di Santa Trinita in Alpe (8).
Il significato di pieve è quello di chiesa con diritti battesimali. Per piviere o plebato si intende, invece, la sua parrocchia; cioè l’insieme delle piccole chiese rurali, prive di fonti battesimali, situate nel suo territorio. L’unione dei pivieri formavano il vescovado, discendimento diretto della civitas romana (9).
La pieve di Sco probabilmente venne innalzata dopo che il lento processo di espansione del cristianesimo trovò la totale affermazione anche nelle nostre campagne, fino allora legate a religioni pagane (10). Il cristianesimo, infatti, si era affermato con rapidità nei principali centri urbani della Toscana, mentre aveva stentato a diffondersi tra i contadini. La nuova religione iniziò a consolidarsi durante il pontificato di Gregorio Magno (590-604), per poi ottenere, nel corso dei secoli successivi la piena stabilità che portò all’edificazione e al restauro degli edifici sacri, anche in quelle zone rurali che necessitavano di una più marcata identità religiosa (11). Fin dall’854, anno da cui provengono notizie dell’unione provvisoria dei comitati di Firenze e Fiesole (12), il territorio delle due diocesi appariva punteggiato da una fitta schiera di chiese battesimali.
L’impulso di rinnovamento non si limitò all’ambito religioso, ma si rifletté positivamente anche nella vita civile, favorendo i processi di mutamento agrario. Nei secoli seguenti, tramite il dissodamento e la bonifica, si giunse al recupero di molti territori da destinare all’agricoltura.
Con la presa e la distruzione di Fiesole da parte dei fiorentini, avvenuta nel 1125, il controllo territoriale di Firenze si spinse con più efficacia verso il Valdarno Superiore dove prevaleva il feudalesimo dei vescovi di Fiesole.
Intorno al 1170, Firenze costruì una nuova cinta di mura e, procedendo al frazionamento dei quartieri di Por S. Maria e Porta Duomo, costituì una diversa organizzazione amministrativa della città (13). Nacquero così i sesti o sestieri. A ognuno di essi venne conferito una giurisdizione rurale: il territorio di Sco venne assegnato al Sesto di Por S. Piero.
Nel 1260 l’esercito di Firenze venne disastrosamente sconfitto a Montaperti dalle truppe senesi, unite ai ghibellini delle altre città della Toscana capeggiate da Farinata degli Uberti. Il Comune di Firenze, per far fronte all’azione di guerra intrapresa contro Siena, aveva invitato i popoli del contado ad un tributo straordinario di grano per sostenere l’alleata Montalcino, stretta d’assedio.
Il Libro di Montaperti (14) raccoglie tutti gli atti della suddetta impresa bellica. E’ un vero e proprio archivio dell’esercito del Primo Popolo Fiorentino. Questo incartamento costituisce una fonte importante, completa di dati e indicazioni utili per determinare l’effettiva condizione dei popoli del contado. Sicuramente i popoli maggiormente impegnati nella contribuzione di grano dovevano essere anche i produttori più importanti e, probabilmente, possedevano un preminente numero di abitanti, dato che le attribuzioni fiscali dell’epoca erano stabilite a seconda dell’estimo patrimoniale.
Mentre Figline Valdarno contribuì con 207 staia di grano su 14 popoli, Gropina con 189 staia su 16 popoli, Cascia con 139 staia su 14 popoli, Incisa con 81 staia su 7 popoli, Pitiana con 57 staia su 13 popoli, il plebato di Sco si impegnò nell’approvvigionamento di Montalcino con 94 staia di grano, ripartite tra i dieci popoli che lo componevano.
I documenti relativi alla promessa di fornitura di grano, sono tuttavia viziati da un dato di fondo rappresentato dal fatto che non riassumono totalmente la produttività locale, poiché non tengono conto delle proprietà appartenenti ai cittadini, o a individui trasferiti in città, e fiscalmente assoggettate ai relativi sesti di appartenenza.
Un’altra importante fonte storica, sempre di natura fiscale, è rappresentata dalle liste pontificie Rationes Decimarum Italiae. Si tratta di due volumi dove sono elencati gli enti ecclesiastici assoggettati all’imposizione fiscale denominata Decima, a favore della Chiesa per gli anni che vanno dal 1274 al 1305 (15). La Decima offre la possibilità di stabilire il valore economico ecclesiastico, complessivo e anche di ogni singola chiesa. Non permette invece, per quanto riguarda il nostro plebato, un confronto con la tassazione del Libro di Montaperti in quanto Sco e le sue chiese dipendenti non sono trascritte nei relativi elenchi. Comunque, in quella circostanza, le chiese di Sco versarono globalmente alla Sede Apostolica 28 libbre e 9 soldi, somma relativa alle due rate semestrali 1276/77 della Decima sessennale del 1274/80. Contemporaneamente Cascia pagò 55 libbre e 9 soldi, Gaville 54,7, Figline 37,5, Incisa 30,32 e Pitiana 15,5. Mentre per Gropina si conosce soltanto la rata semestrale del 1275 per un totale di 79 libbre e 18 soldi.
La Decima consente di stabilire con più precisione la collocazione territoriale dei vari insediamenti di ogni giurisdizione. Permette il raffronto con i popoli del Libro di Montaperti e fornisce notizie sulla proprietà ecclesiastica. Naturalmente presenta anche i suoi limiti che impediscono di stabilire la consistenza patrimoniale delle singole chiese, oppure risulta incompleta per l’esclusione degli enti esenti dal pagamento del tributo.
In definitiva, comprendiamo dalle due fonti, che i principali centri abitati erano collocati in prossimità delle valli sorte dai laghi del Valdarno Superiore, del Mugello e del Casentino, dato che in queste zone viene rilevata la maggiore possibilità contributiva e, in conformità, produttiva. Ai principali centri si aggiungevano altri insediamenti più modesti. Infatti gli storici ci rivelano che a “partire dagli anni venti-trenta del secolo XII fino all’inizio del successivo si andarono formando all’interno delle pievi rurali, le parrocchie” (16). Quasi tutte le chiese plebane furono rinnovate, assumendo forme romaniche, e si edificarono le chiese suffraganee. La pianta di queste ultime costruzioni, di solito, era improntata alla più grande semplicità: una navata rettangolare coperta da travi di legno e conclusa con un’abside circolare.
E’ presumibile che anche la chiesa di Faella sia stata fondata in questo periodo, anche se il suo impianto iconografico, a causa delle molteplici trasformazioni, è attualmente caratterizzato da un modesto stile barocco che non permette una precisa datazione d’origine: soltanto ricerche archeologiche potrebbero fornite indicazioni più precise.
Certamente la chiesa di S. Maria a Faella, eretta su bassa collina alla destra dell’Arno, a circa 5 Km da Figline Valdarno, nella piana alluvionale del torrente omonimo (17), fu costruita in coincidenza con l’epoca in cui la pianura, ormai bonificata, iniziava a essere messa a coltura. Questa fondazione ecclesiastica era compresa, appunto, tra le suffraganee della Pieve di Sco.
Attualmente le uniche notizie documentate di questa chiesa risalgono al 1260 (18) , ma la sua edificazione è senz’altro antecedente poiché il fenomeno di edificazione delle chiese rurali si esaurì nella metà del XIII secolo e, raramente, dopo quel periodo furono costruiti nuovi edifici religiosi (19).
L’insediamento attorno alla chiesa di Faella, consacrata a Santa Maria (20), era un popolo, un villaggio aperto, cioè, secondo la dizione usata nel territorio fiorentino, il raggruppamento di case attorno a una chiesa non battesimale e privo di mura difensive. Era diretto da un rettore che lo regolava alle dipendenze della Pieve di Sco.
“I piccoli popoli eleggevano i propri rectores, costoro eleggevano insieme un sindicus che, quando era necessario, rappresentava il piviere davanti al quartiere urbano o davanti al comune. Il comune levava le imposte proprio presso i rettori dei diversi popoli, a loro richiedeva il servizio militare e il vettovagliamento dell’esercito e così via” (21).
Riutilizzando le liste di Montaperti, vediamo che il popolo di Faella si impegnò per la fornitura di 4 staia di grano. I centri vicini, evidentemente molto più popolati, promisero un contributo più elevato. L’altra fonte storica, le liste della Rationes Decimarum Italie, ci danno soltanto l’opportunità di constatare che la chiesa di S. Maria a Faella, nel 1276, pagò 2 libbre e 10 soldi per le rate semestrali della decima dovuta come tributo alla Chiesa.
Nel 1312, la diocesi di Fiesole soppresse la chiesa di San Michele a Favilla (22) e il suo popolo fu riunito a quello di Faella. Il fatto è stato considerato come una necessità dovuta alla precarietà dell’edificio di Favilla, anche se molti ricercatori evidenziano che, in quei secoli, le fusioni parrocchiali erano piuttosto frequenti a causa di crisi demografiche (23). D’altronde numerose testimonianze attestano che lo stato di conservazione di questi edifici era veramente pessimo fino a minacciare, in certi casi, la completa rovina. Qualunque sia stato il motivo, la fusione dei due popoli incrementò ovviamente Faella che allargò la propria giurisdizione, toccando i confini di Viesca e Ostina.
Intanto, nel 1299 i consigli fiorentini avevano deliberato di costruire alcune Terre Nuove (24). Firenze, allo scopo di migliorare le difese del Valdarno, ma soprattutto preoccupata di consolidare la propria supremazia nelle campagne, decise di edificare gli insediamenti fortificati di San Giovanni Valdarno, Castelfranco di Sopra (25) e successivamente Terranuova Bracciolini.
Castelfranco fu edificata nel 1299(26) in località Casauberti presso Soffena. La popolazione che vi domiciliò venne composta dai terrazzani locali seguaci degli stessi feudatari contrastati da Firenze. I nuovi abitanti furono esentati per dieci anni da ogni tassa.
Lo statuto di questo Comune risale al 1394 (27) ed è conservato nell’Archivio di Stato di Firenze al n.173. L’organo deliberativo comunale di maggior importanza era il Consiglio Generale. Il Consiglio era composto da 108 consiglieri in rappresentanza dei 13 popoli che componevano la comunità. Il numero dei rappresentanti variava per ciascun popolo, probabilmente in rapporto agli abitanti (28). Il Consiglio Generale aveva un durata di 18 mesi. Ogni sei mesi un terzo dei componenti si avvicendava alla guida amministrativa. La nomina dei sindaci e dei rettori, invece, avveniva nel seguente ordine: “i consilglieri del popolo di Sancto Miniato eleggano il primo anno il sindico et rectore del decto comune, i consilglieri del popolo di Sancto Godenzo il secondo anno, i consilglieri del popolo di Sancto Michele di sotto il terzo anno, i consilglieri del popolo di Sancto Iacopo da Montecarelli il quarto anno, i consilglieri del popolo di Sancta Maria da Faella il quinto anno, i consilglieri del popolo di Sancto Tommè il sesto anno, i consilglieri del popolo di Sancto Andrea a Puliciano il septimo anno, i consilglieri del popolo de la pieve di Sco l’ottavo anno, i consilglieri del popolo di Sancto Mattheo da Caspri il nono anno, i consilglieri di Sancto Donato da Menzano il decimo anno, i consilglieri del popolo di Sancto Salvadore l’undicesimo anno, i consilglieri del popolo di Sancto Donato da Ciortignano il duodecimo anno, i consilglieri del popolo di Sancto Michele di sopra il tredicesimo anno, et così di tempo in tempo seguitando per ordine, et quando saranno a l’ultimo poi si rifaccino da capo, et in questo modo si segua in perpetuo” (29).
Intanto, dal XIII secolo in poi, i plebati erano stati sottoposti a modifiche territoriali, perdendo molte delle loro funzioni di amministrazione civile che furono assorbite dalle leghe, ormai in fase di ascesa.
Nelle nostre località, probabilmente dopo la costruzione delle terre nuove, alle leghe vennero affidate, attraverso una nuova ripartizione territoriale, mansioni militari, di controllo pubblico e di relativo potere giuridico.
Il Valdarno, nel 1309, risulta suddiviso in sei leghe: Rignano (San Gervasio), Cascia, Val d’Avane, Figline e Incisa; Castelfranco (Casauberti), San Giovanni e Montevarchi (30).
Castelfranco, terra fortificata a cui apparteneva il territorio di Faella, sicuramente rappresentava l’istituzione più qualificata e organizzata, con funzioni strategiche, economiche e giuridiche, per garantire gli obbiettivi di Firenze in quella parte della campagna fino allora basata sulla pieve di Sco. Tant’è vero che nella metà del Trecento tutti i popoli di Sco risultano uniti nella Lega di Castelfranco (31).
Fin dal 1376, la struttura delle leghe era disposta in podesterie, senza tuttavia modificare essenzialmente la struttura amministrativa fondata sull’antica organizzazione dei popoli e dei pivieri. L’organizzazione territoriale fiorentina subì ulteriori cambiamenti. Dal 1415, in una nuova ripartizione della città e del contado, il piviere di Sco fu destinato al Quartiere di San Giovanni.
Nel 1427, per valide necessità fiscali, fu istituita una diversa magistratura denominata dei Cinque Conservatori del Contado e, sempre in quell’anno, venne costituito il Catasto.
Le denunce catastali del 1427 rappresentano la fonte più importante del periodo per l’analisi della popolazione. In quei secoli il Piviere di Sco era composto da 1.656 abitanti, suddivisi in 366 nuclei familiari. Dai dati di questo primo catasto (32) notiamo che Faella era composta da 35 famiglie, per un totale di 144 abitanti (33) .
Concludo questa breve e incompleta cronistoria del nostro territorio, nel momento in cui la società fiorentina era ampiamente sviluppata: ma, ormai, si avvicinavano i tempi dei suoi nuovi tiranni, i Medici, che avrebbero annientato definitivamente la Repubblica di Firenze.
LA CORTE E IL “CHIESINO” DI SAN MICHELE A FAVILLA
Nel 568 dalla Pannonia (odierna Ungheria) la popolazione di origine germanica dei Longobardi scese in Italia. In un paese stremato dalle guerre e dalle carestie i Longobardi non ebbero impedimenti nel conquistare gran parte dell’Italia, escluso i territori della Chiesa romana e delle zone rimaste ai Bizantini. Il territorio conquistato venne suddiviso in ducati, quello del nord compreso la Toscana, fu nominato Longobardia Maior. A sud i ducati di Spoleto e Benevento formavano, invece, la Longobardia Minor.
Nella zona in questione scarseggiano gli indizi riferibili a questo periodo. La toponomastica, tuttavia, ci è d’aiuto per riscontrare l’esistenza di stanziamenti dell’epoca. In realtà qui esiste, come in altre parti della Toscana, il toponimo Brolio (34), collocato a poca distanza da Faella nel versante del Resco. Il nome del luogo deriva dalla voce germanica broilo che significa spazio ricco di vegetazione (orto). Di origine longobarda appare anche Forracava (denominazione spesso cangiata in Foracava), località posta di fronte a Faella nel Comune di Castelfranco di Sopra. Il vocabolo deriva dal longobardo furha che vuol dire spazio fra i solchi (fossato, burrone)(35) con l’aggiunta dell’aggettivo cava, grotta o buca. Montecarelli si può far risalire al nome personale germanico Carello (36).
Ai mutamenti causati dall’occupazione longobarda sembra non siano seguiti profondi mutamenti sociali. La stirpe germanica non apportò una vera e propria colonizzazione ma compenetrò nella consuetudine locale in modo puramente tradizionale, senza troppi cambiamenti. In questo periodo, infatti, la distribuzione della proprietà fondiaria, in Toscana e in molte parti dell’Occidente, si basava sulla curtis, retaggio della villa agraria romana. Il termine curtis, in italiano corte, poteva contraddistinguere la complessiva proprietà terriera, oppure la sede delle attività direttive o, addirittura, l’abitazione padronale. In Toscana, di solito, il suo territorio era compreso dai 9 ai 16 ettari, più o meno fortificati.
Anche nella zona adiacente a Faella il richiamo toponomastico a questo organismo economico e giuridico altomedievale è testimoniato dalla località La Corte. Si tratta di un luogo collocato nei pressi della frazione Failla poco distante, quindi, dalla scomparsa chiesa di San Michele a Favilla (37) e del distrutto castello di Faella (38). La posizione è indicata chiaramente, a occidente di Faella, in una pianta del Vicariato di S. Giovanni Valdarno risalente alla seconda metà del settecento (39). Anche l’intitolazione a San Michele della non più esistente chiesa di Favilla, è una dedicazione che possiamo ritenere anch’essa longobarda, infatti questo popolo considerava San Michele arcangelo il proprio protettore e custode della genuinità delle acque (40).
In Toscana, secondo specifici studi (41), nei secoli XIV e XV, i villaggi che scomparvero raggiunsero il 10% del totale. In altre regioni il numero fu ampiamente superiore. La chiesa di San Michele a Favilla scomparve dalla sfera religiosa nel 1312, a seguito della sua soppressione per motivi di agibilità e unita con la chiesa di Faella.
Questo edificio era stato eretto sulle friabili e pittoresche balze di Barberaia. Il ricordo popolare ci ha tramandato la sua esistenza e la definizione chiesino con cui venne indicato, certamente per le sue modeste dimensioni.
Nella mancanza di precisi documenti, l’origine di questa chiesa è da ritenere longobarda a cagione, come accennato, del suo Santo titolare. La sua collocazione si avvicina molto a quelle esaminate da vari studiosi (42) e palesate come fondazioni religiose padronali, che non sono mai battesimali, situate entro l’antica villa che diventerà successivamente la curtis.
Il popolo di Favilla è elencato nelle liste del Libro di Montaperti (43), sotto la giurisdizione del plebato di Sco, con l’impegno di fornire due staia di grano alla Repubblica Fiorentina (1260). Nel 1276 pagò alla Chiesa 2 libbre e 3 soldi per la decima (44). Nel 1312 il vescovo di Fiesole, Tedice figlio di Neri di Aliotto Visdomini(45), unì San Michele di Favilla con Santa Maria a Faella(46). Nonostante questa fusione di carattere religioso, Firenze continuò a tassarla separatamente, nominandola con la denominazione originaria. Dai dati catastali del 1427 (47), si può rilevare che Favilla aveva 16 capi famiglia, con un totale di 82 anime.
LA VIABILITA’
Le notizie relative alla viabilità medievale appaiono piuttosto carenti. Sembra che la rete stradale impiantata dai romani, sia rimasta utilizzabile fino agli anni di Teodorico (488) per poi deteriorarsi completamente durante il dominio longobardo. Comunque anche se le strade a lungo tragitto erano poche e deteriorate, certamente doveva essere sviluppata una limitata viabilità minore.
Nel Valdarno Superiore, due erano i principali tracciati stradali che univano Firenze e Fiesole con Arezzo e quindi con l’antica Etruria. Questi due tracciati, come già detto, si sviluppavano a mezza costa. Uno sulla riva destra dell’Arno e l’altro, a circa la stessa altezza, sulla riva sinistra.
La prima strada, la consolare romana Cassia Vetus (50), abbiamo già visto che corrisponde, grossomodo, all’attuale strada dei Sette Ponti. Mentre l’altra, una successiva diramazione della stessa Cassia, partendo da Firenze raggiungeva Ricorboli, Ponte a Ema, Cintoia, Ponte agli Stolli, Gaville, Cavriglia, Bucine, Arezzo (51).
Nella nostra zona è ormai appurato che sulla riva destra dell’Arno, a un’altezza di 200/300 metri sul livello del mare “si offriva l’unica possibilità di tracciare una strada, quando la pianura stessa del fiume non era praticabile”(52) . Questa possibilità, realizzata dai romani (forse su tracciato etrusco), strutturò la chiesa battesimale di Sco in relazione, appunto, alle necessità viabili. Sicuramente a questo plebato doveva competere la manutenzione della stessa Cassia (53) all’interno dei propri territori che si spingevano fino ai confini diocesani.
Indubbiamente dovevano esistere anche vie minori, o più semplicemente sentieri e mulattiere, che dall’altopiano dove si arrampicava la via maestra scendevano in direzione dell’Arno.
La chiesa di S. Miniato a Sco e quella di S. Iacopo a Montecarelli spingevano, infatti, la competenza del piviere verso i limiti della fascia collinare che declinava in direzione della valle (54). Da Montecarelli si scendeva a Faella, in direzione dello Stagi o verso Rantigioni. Con probabilità il processo che favorì questo tracciato verso il fondovalle ebbe inizio durante il rigoglio medievale che permise anche lo sviluppo del vicino borgo-mercato di Figline Valdarno. Faella, quindi, collocava il piviere di Sco a pochi chilometri dall’Arno, quasi a stretto contatto con i centri che, ormai, sorgevano nella valle.
E’ certo che nelle vicinanze dell’attuale ponte sull’Arno di Figline, esisteva il guado del fiume anche in tempi remoti (55), tant’è vero che i territori collocati sulla riva destra, fino alla località Montalpero, appartenevano al popolo del Castello di Guineldo (56), fortilizio ubicato sulla riva sinistra in prossimità del nucleo abitativo di Figline.
Da Faella si arrivava nel Piano, in prossimità dell’Arno, tramite la strada de Le Chiuse che valicava la collina Ontaneto. Da qui si poteva raggiungere il suddetto guado, oppure proseguire da La Vecchia, Rona, Prulli e Cetina per arrivare a Incisa dove esisteva un ponte per l’attraversamento del fiume.
La fondazione di Castelfranco, nel 1299, deve aver apportato anche una limitata potenzialità stradale. Infatti “fu nel ‘200 che il sistema delle strade in pianura vinse finalmente quell’altro sistema antico delle strade in collina”(57). Provenendo da Figline la via più naturale per arrivare a Castelfranco appare quella che, oltrepassate Le Chiuse, in prossimità del borgo di Faella doveva attraversare l’omonimo torrente e dirigersi verso i Poggi. Qui una serie di sentieri, qualcuno ancora oggi percorribile, conducevano da Pratiglioni a La Bornia, alla Sala Piccola e al Paretaio, arrivando infine a Castelfranco. Anche la “Pianta del Vicariato di S. Giovanni” (58), pur nella sua inesattezza, sembra indicare questa ipotesi.
IL CASTELLO DI FAELLA
A partire da X secolo, un elemento che distingueva le strutture abitative medievali era sicuramente il castello, poiché rappresentava la parte essenziale dell’organizzazione territoriale. E’ ormai accertato che nel secolo XI tutto il contado fiorentino, un territorio esteso per circa 100 Km di lunghezza e con una larghezza media intorno ai 50 Km (59), era disseminato da questo tipo di insediamenti. Infatti “in qualunque luogo lo sguardo potesse spaziare lontano, doveva scorgere il profilo minaccioso di qualche castello. Di queste rocche troviamo prevalentemente notizia tra il 1050 e il 1200” (60). Gli storici e gli urbanisti si sono applicati, spesso anche in contrasto tra di loro, negli studi e nella identificazione di questi edifici. Lo storico Davidsohn (61) ha stabilito che nelle fonti medievali da lui consultate, i castelli menzionati nel periodo antecedente al 900 sono uno o due. Prima del 1000 il numero è diventato 11; prima del 1050 sono 52; prima del 1100 sono 130 e fino al 1200 sono 252. Repetti (62) ne indica un numero di circa 300. Francovich (63), per i secoli XII e XIII, invece, ne ha calcolato l’esistenza di 235. Oggi di queste strutture ben poco rimane, a causa del continuo rinnovamento e delle trasformazioni avvenute attraverso i secoli. Nella maggior parte dei casi restano pochi ruderi o sono totalmente scomparse.
Anche a Faella (Arezzo) esisteva un castello. Questo edificio era situato sulla cima di un poggio denominato Castellare (indicazione di castello abbandonato o distrutto) situato nei pressi della suddetta località: tav. 114, IV N.O. (I.G.M.); alt. mt. 173, in posizione di sprone a circa Km 3 dal fiume Arno che scorre a mt. 120 circa di altitudine; a 700 mt. dal torrente Faella, sulla cui riva destra sorge il paese omonimo.
Originariamente, secondo il Plesner, “il castello non aveva nulla in comune con i grandi possedimenti territoriali. Si trattava di una formazione sociale tutta speciale, di cui si deve cercare il modello nei campi di frontiera militare romani o bizantini, in cui aveva vissuto una popolazione libera che adempiva agli obblighi militari. I pochi rari antichi castelli anteriori al 1000 sono situati nelle antiche regioni di frontiera e risalgono probabilmente alle disposizioni strategiche dell’epoca in cui i bizantini organizzavano contro i longobardi la difesa della Romagna tra Roma e Ravenna ecc., o a disposizioni più antiche” (64), invece, l’origine e il totale sviluppo della maggior parte dei “castra” del territorio fiorentino è da ricercare nella difesa delle “corti” contro le invasioni saracene, ungare e anche normanne.
Anche per il castello di Faella, i sospetti toponomastici ci portano a presumere che si trattava del tipico insediamento nato dall’incastellatura di una corte. La località Castellare, infatti, appare come un vero avamposto al luogo significativamente denominato La Corte.
Le uniche fonti edite che parlano di questo castello sembrano essere quelle di Repetti, che asserisce: “ il luogo dove fu l’antico castello di Faella è situato sopra una piaggia di argilla cerulea sulle falde occidentali dell’Appennino di Prato-magno, fra il torr. Faella che gli resta a lev. e quello del Resco Simontano che rode la sua base a pon. La natura friabile del terreno, che costituisce le frastagliate colline di Pian-di-Scò, di Castel-Franco e di Terranova sulla ripa destra dell’Arno, ha cagionato l’intiera rovina dell’antico cast. di Faella al pari di quelli di Ostina, di Ganghereto e di varj altri, dei quali sono perdute, o restano appena vestigie. L’odierno borgo di Faella (…) è posto mezzo miglio a lev. del poggio, in cui esisteva il castello nominato, sulla ripa destra del torrente Faella (…)” (65). Sempre Repetti (66) ci narra: “nel 1168 di ottobre, un Renuccino figlio di Ranieri, stando nel suo castello di Faella fece promessa ai monaci di S. Salvatore di Safena di non recare molestie ad alcune terre e vigne di loro pertinenza situate nel piviere di Groppina”.
Nel 1204 il castello, o almeno il territorio dove era situato, apparteneva ad Aldobrandino di Tribaldo da Quona che lo cede ad Alberto di Ranieri dei Ricasoli. Infatti lo storico Passerini scrive: “fra i molti castelli (di Alberto dei Ricasoli) ereditati dal padre eravi quello ancora di Castellonchio in Val di Sieve, forse derivante dalla dote materna e questo vendè nel 1204 ad Aldobrandino di Tribaldo da Quona, con la giurisdizione civile e criminale, col mero e misto impero, ricevendone in compenso Pulicciano, Failla e Faella in Valdarno e quattromila lire di moneta pisana” (67). Le notizie si fermano qui. Soltanto da un “Decimario” parrocchiale del 1673 risulta che la struttura era stata trasformata in una casa colonica degli Altoviti di Firenze (68).
In mancanza di specifiche indicazioni, soltanto ricerche archeologiche nell’area Castellare potrebbero fornirci notizie più esaurienti. Già da semplici osservazioni colpiscono le caratteristiche della collina in questione. La sua regolarità geometrica, in tempi passati coltivata a oliveto, forse è dovuta dall’azione delle mura circolari di cui probabilmente era dotato l’edificio, determinandone la caratteristica conica. Le vegetazione si infittisce sulla sommità lievemente arrotondata, in corrispondenza dei presumibili ruderi, sviluppando un limitato bosco di acacie e altri arbusti. Una notevole quantità di detriti e di mattoni risultano interrati sulla parte centrale del bosco. I laterizi rilevati, di varie misure, sono di evidente struttura manuale (dimensioni di alcuni tipi di mattoni: lunghezza cm. 28,20, larghezza cm. 14; spessore cm. 4,80), forse attinenti alla trasformazione del castello nella casa colonica degli Altoviti e oggi anch’essa non più esistenti.
I MULINI AD ACQUA DELLA FAELLA
Com’è noto, a partire dall’XI secolo si sviluppò in Europa una generale ripresa economica che favorì il processo di espansione e di conquista dei territori da destinare all’uso agrario. In questo periodo numerose furono le innovazioni che migliorarono le tecniche agricole. Tra questi il mulino ad acqua assunse un’importanza fondamentale nella vita contadina raggiungendo, nel XII secolo, una totale diffusione in tutta Europa (69).
“Nella vita dei contadini il mulino aveva un’importanza che difficilmente può essere sopravalutata. Grazie al continuo viavai, alla necessità per gli utenti di far la coda per ottenere la farina, esso era un importante luogo di incontro per la società rurale e un canale di diffusione delle notizie e delle idee” (70).
In una iniziativa editoriale del Comune di Figline Valdarno (71), relativa a uno studio sulle condizioni economiche e sociali verso la fine del Quattrocento e basata sul materiale dell’archivio del locale Ospedale Serristori, viene rilevato l’esistenza di due mulini a Faella.
I mulini erano collocati sul torrente Faella, nel tratto tra il Casato e L’Acquino e appartenevano, appunto, allo Spedale di Figline, ottenuti in lascito (72). L’uso di queste strutture era concesso in affitto, tramite il pagamento di un canone in natura. Soltanto un certo Martino di Salvatore “affittuario dal 17 gennaio 1495 al 6 agosto 1499 di uno dei due mulini che l’ospedale aveva a Faella, è infatti costretto a fare uno speciale accordo per pagare in denaro anziché in staia, calcolando per ogni staio un valore di 45 soldi” (73).
Gli altri affittuari del mulino e delle sue attrezzature, pagavano per l’annuale canone in natura: 84 staia di grano, 12 paia di piccioni, 1 paio di capponi, 1 libbrea di cera e 60 uova. L’unica eccezione era data da Bartolomeo di Chimente detto El Biadino che pagava invece sei staia di grano al mese (74). L’attrezzatura del mulino era composta da: “una macina pratese con un cerchio di ferro per l./25; una macina alberese per l./15; un ritricine, l./2; una ralla; un punteruolo, due cerchi di ferro nel ritricine, l./2, un martello per l./2; un palo di ferro a penne; un bozolo di rame; un archa di faggio di tenuta st.25 incirca” (75).
Note
1. La località è ricordata da E. Repetti (“Dizionario geografico fisico storico della Toscana”, Firenze 1883, v.II p.83) per il ritrovamento di ossa fossili appartenenti a quadrupedi di età preistoriche.
2. G. BILLI, “Conoscere il Valdarno”, Comune di Cavriglia, 1980;
A. CECCONI-C. RISI, “Il Valdarno Superiore quando era un lago”, LEF, 1978.
3. S. PIERI, “Toponomastica della Valle dell’Arno”, 1919 Roma.
4. T. CINI, “Appunti storici sulla Valle dell’Ambra”, Montevarchi 1907;
I.G.M., “Edizione archeologica della carta d’Italia”.
5. S. PIERI, “Toponomastica”, cit.
6. J. PLESNER, “Una rivoluzione stradale del Dugento”, Papafava 1980.
7. E. REPETTI, “Dizionario geografico”, cit.;
G. MOROZZI, “Interventi di restauro”, Bonechi 1979;
M. SALMI, “Chiese romaniche della campagna Toscana”, Electa 1958 e “Civiltà artistiche della terra aretina”, Novara 1971;
A. SECCHI, “Arte nell’aretino”, Firenze 1975;
S. MANNESCHI, “Notizie storiche del Comune di Loro Ciuffenna”, Arezzo 1921
A. SCARINI, “Pieve romaniche del Valdarno Superiore”, Calosci 1985.
8. R. DAVIDSOHN, “Storia di Firenze”, Sansoni 1957/69: “Due monaci tedeschi, Eriprando e Pietro, fondarono con altri fratelli un convento nelle solitudini dell’Appennino fiorentino. Dopo un pellegrinaggio a Roma avevano deciso di non separarsi più. Fondarono quindi un ospizio nel “deserto delle Alpi” (col nome Alpi si designavano allora gli Appennini più alti), ma i calori estivi prosciugarono le fonti e i temporali distrussero la loro casa. Decisero perciò di aspettare qualche oracolo che indicasse loro dove scegliere la nuova dimora e questa indicazione credettero vederla nel vento che portò alcune assicelle del tetto rovinato in un luogo vicino. Ivi gorgogliava una fonte, le cui acque peraltro erano in voce di portare la febbre, tanto che i contadini ne avevano sbarrato il corso con un mucchio di pietre. I fratelli credettero, o fecero credere, di poter liberare con un miracolo dalla sua proprietà malefica quell’acqua, che probabilmente era solo inquinata. Vi entrarono dentro scalzi, preceduti dalla croce e la purificarono con acqua benedetta e con incenso; da quel tempo la fonte si chiamò benedetta e guarì la febbre anziché procurarla. Il nuovo convento dei monaci tedeschi prese il nome di “S. Trinitatis de fonte benedicto” e durò fino al secolo XVI sotto la denominazione un po’ mutata di “Santa Trinita dell’Alpi”. Sorgeva sui contrafforti del Pratomagno e le “Alpi della Badia di S.Trinita” ne portano ancora il nome. Quei dintorni appartenevano allora al Comitato di Firenze. La fondazione fu tra il 983 e il 996, come risulta dalla breve storia delle sue origini contenuta in una pergamena dell’A.S.F. Lo scritto è del XII secolo. La fondazione sarebbe avvenuta “temporibus Octonis regis” le quali parole, in un documento steso in Italia, non possono alludere che al regno di Ottone III. La prima notizia documentata della Badia è del 12 marzo 1009 ed essa è ricordata quale “S.Trinita, que est in Alpe ad vocabulo fonte benedicta”. Il conte Uberto II, figlio di Wido, nel 1014 stese nel suo castello di “Sophena, judicaria Florent.” un atto di donazione al convento di Santa Trinita dell’Alpi”.
9. J. PLESNER, “L’emigrazione dalla campagna”, Papafava 1979, p.23: “Il contado di una città si identificava generalmente con il territorio della sua diocesi, che a sua volta era più o meno identico alla “civitas” dell’età imperiale romana, costituita dal distretto con il suo centro urbano”.
10. G. MENGOZZI, “La città italiana nell’alto Medio Evo”, La Nuova Italia 1977, p.58 n.t.: “L’Imbart de la Tour, “La paroisse rurale”, ha acutamente osservato che la chiesa cattolica tentò sempre di soppiantare il paganesimo, insediandosi negli stessi luoghi ad esso destinati, per fruire della forza dell’abitudine, per cui si tende a continuare ad andare dove si è sempre andati”.
11. E. AMMAN, “Storia della Chiesa”, Torino 1953 – Rodolfo il Glabro, “Historiarum”: “l’anno terzo dopo il Mille accadde che in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, s’incominciassero a costruire chiese, sebbene molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero punto bisogno di tale restaurazione, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, si rivestisse dappertutto della bianca veste di nuove chiese. Insomma quasi tutte le cattedrali, un gran numero di chiese monastiche e fin gli oratori di villaggio furono allora restaurati dai fedeli”.
12. R. DAVIDSOHN, “Forschungen zur alteren geschichte von Florenz”, Berlino 1896.
13. J. PLESNER, “Una rivoluzione stradale”, cit., p.76.
14. C. PAOLI, “Il libro di Montaperti”, Documenti di Storia Italiana, IX, Firenze 1889.
15. P. GUIDI, “Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV – Tuscia I – Le Decime degli anni 1274-1280”, Città del Vaticano 1932;
M. GIUSTI – P. GUIDI, “Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV – Tuscia II – Le Decime degli anni 1294-1305”, Città del Vaticano 1942.
16. C. VIOLANTE, “Pievi e parrocchie nell’Italia centrosettentrionale durante i secoli XI e XII”, 6A sett. Internaz. di Studio, Milano 1-7.9.74, Vita e Pensiero 1977.
17. F. MOROZZI, “Dello stato antico e moderno del fiume Arno e delle cause de’ rimedi delle sue inondazioni”, Firenze 1766.
18. Cfr. Tavola 1
19. Cfr. I. MORETTI-P. RUSCHI-R. STOPANI, “Primo incontro con la Toscana del Medioevo”, LEF 1975.
20. Nel 1260, portavano la stessa dedicazione della chiesa di Faella una trentina di edifici religiosi collocati nel Sesto di Por S.Piero.
21. J. PLESNER, “L’emigrazione dalla campagna”, cit., p.154.
22. G. RASPINI, “Faella”, Sbolci 1958, p.6: “Per ragioni di staticità fu soppressa dal Vescovo Tedice con atto rogato nel 1311 dal notaro Ser Opizzo da Pistoia”. (L’anno sicuramente è errato, dovrebbe essere il 1312).
23. G. CHERUBINI, “Signori, Contadini, Borghesi”, La Nuova Italia 1977, p.167: “Nella diocesi di Siena numerose sono nella seconda metà del secolo (XIV), le fusioni di due parrocchie in una.”
24. “Consigli della Repubblica Fiorentina” a cura di B. BARBADORO, Zanichelli 1921-30;
I.MORETTI, “Le Terre Nuove del Contado Fiorentino”, Salimbeni 1979.
25. G. VILLANI, “Cronica”, S. Coen 1844, libro VIII, cap. XVII: “… essendo il Comune ed il popolo di Firenze in assai buono e felice stato, con tutto che i grandi avessero incominciato a contradire il popolo per meglio fortificarsi nel contado, e specialmente quelle de’ Pazzi di Valdarno e degli Ubertini ch’erano ghibellini (…) si ordinò che nel nostro Valdarno di sopra si facessero due grandi terre e castelli; l’uno era tra Fegghine e Montevarchi, e puosesi nome castello San Giovanni, l’altro in casa Uberti allo ‘ncontro passato l’Arno e puosengli nome Castelfranco...”;
E. SEQUI, “S. Filippo Neri e Castelfranco di Sopra”, Tip. Righi 1895, p.10: “E’ dunque manifesto che di quei tempi nel nostro Valdarno signoreggiavano fra le altre tre potentissime famiglie di parte ghibellina, cioè i Guidi, i Pazzi e gli Ubertini (…) I Guidi, tra i loro castelli dalla parte nostra, ebbero principalmente quelli di Barbischio, di Viesca, di Moncioni, di Terraio, di Groppina e di Loro. I Pazzi dominavano in quelli di Lanciolina, di Montemarciano, di Poggitazzi, della Trappola, di Montefortino, di Ostina, di Piantravigne, e di Piano di Mezzo. Gli Ubertini eran fortissimi in Gaville, e si teneano potenti a Traiana, a Laterina, a Ganchereto, al Tasso, a Castiglione detto perciò ancora degli Ubertini, a Risdruccoli e a Soffena”.
26. L’anno di fondazione viene spesso indicato nel 1296, cfr. G. Villani, Cronica, cit., libro VIII cap. XVII, ma la data della delibera delle “Provvisioni”, A.S.F., IX c.136 r., riporta il 26 gennaio 1299.
27. “Statuti dei Comuni di Castelfranco di Sopra e Castiglione degli Uberti”, a cura di G. Camerani Marri, Olschki Ed. 1963,
28. Cfr. Tavola 3
29. “Statuti”, cit. p.22.
30. M. TARASSI, “Incisa in Val d’Arno”, Salimbeni 1985, p.50.
31. G. RASPINI, cit. p.23: “Questa lega deve essere stata istituita nel 1296 (1299) quando Firenze, fondando Castelfranco per tenere a bada la prepotenza degli Ubertini e dei Pazzi del Valdarno lo assoggettò alla autorità di un Potestà da lei regolarmente inviato ogni sei mesi; se ne ha notizia nel 1322 e gli Statuti della lega portano la data del 1397”(1394).
32. C. KLAPISCH-ZUBER, “Una carta del popolamento toscano negli anni 1427-30”, Ed. F. Angeli 1983.
33. Cfr. Tavola 2
34. S. PIERI, cit., p.228.
35. G. DEVOTO- G.C. OLI, “Nuovo vocabolario ill. lingua italiana”, F. LE MONNIER 1987.
36. S. PIERI, cit., p.208.
37. G. CHERUBINI, cit., p.62.
38. In Toscana sono molte le località denominate “La Corte” con annessa una chiesa intitolata a San Michele.
39. G. RASPINI, cit., p.23.
40. Biblioteca Moreniana, cit.
41. F. SCHNEIDER, “L’ordinamento pubblico della Toscana Medievale”, Firenze 1975°, p.179.
42. C. KLAPISCH ZUBER-J. DAY, “Villages désertés et histoire economique. XI e XVIII siècles”, Paris 1965;
G. CHERUBINI, cit.
43. F. SCHNEIDER, cit., p.180.
44. S. PIERI, cit. p.362.
45. “Libro di Montaperti”, a cura di C. PAOLI, cit.
46. P. GUIDI, “Rationes D. Italie. Tuscia”, I, cit.
M.GIUSTI-P. GUIDI, “Rationes D. Italie. Tuscia”, II, cit.
47. S. AMMIRATO, “Vescovi di Fiesole, di Volterra, e d’Arezzo”, Firenze 1637, p.31.
48. G. RASPINI, cit., p.6.
49. C. KLAPISCH-ZUBER, “Una carta del popolamento toscano”, cit.
50. R. STOPANI, “La viabilità medievale nel Chianti” in “Il Chianti” II, C.S. St. Chiantigiani 1985;
Ibid.,” Il Contado Fiorentino nella seoonda metà del Dugento”, Salimbeni 1979;
J. PLESNER, “Una rivoluzione stradale”, cit. p.49
51. A. BOSSINI, “Storia di Figline e del Valdarno Superiore”, Ind.Tipografica Fiorentina 1970;
J. PLESNER, “Una rivoluzione stradale”, cit., p.55
52. Ibid., p.53
53. MORETTI-RUSCHI-STOPANI, “Primo incontro con la Toscana del Medioevo”, cit., p.25: “E’ stato in precedenza detto della pieve e del suo territorio (il piviere o plebato), come una struttura di base dell’organizzazione ecclesiastica della diocesi. Per la sua derivazione dai modelli amministrativi romani la pieve seguitò per tradizione a svolgere funzioni di carattere laico, come la cura e la manutenzione delle strade pubbliche poste nel suo ambito territoriale”.
54. A Montecarelli e Codilungo, in alcuni muri di protezione che fiancheggiavano il sentiero per evitare il sottostante precipizio, erano infisse, dalla parte sospesa nel vuoto, alcune campanelle di ferro che, la tradizione orale, portava a credere servissero per ormeggiare le barche quando la valle era un lago.
55. Il porto fluviale di Figline Valdarno è ricordato dal XII sec., Cfr. F. BERTI- M. MANTOVANI, “Statuti di Figline”, Blanche Grafica Ed., 1985.
56. R. FRANCOVICH, “I castelli del contado fiorentino nei secoli XII e XIII”, CLUSF 1973.
57. J. PLESNER, “Una rivoluzione stradale”, cit. p.88.
58. Biblioteca Moreniana, “Fondo Acquisti diversi”, ms.141 c.32.
59. J. PLESNER, “L’emigrazione dalla campagna”, cit.
60. R. DADIDSOHN, “Storia di Firenze”, cit., v.I p.451.
61. Ibid.
62. E. REPETTI, “Dizionario geografico”, cit.
63. R. FRANCOVICH,” I castelli del contado fiorentino”, cit.
64. J. PLESNER,” L’emigrazione dalla campagna”, cit., p.33.
65. E. REPETTI, “Dizionario geografico”, cit., v.II p.83.
66. Ibid., v.I p.193
67. L. PASSERINI, “Genealogia e storia della famiglia Ricasoli”, Cellini 1861, p.51.
68. G. RASPINI, cit., p.22.
69. M. BLOCH, “Avvento e conquista del mulino ad acqua in Lavoro e tecnica nel Medioevo”, Laterza Ed. 1990.
70. G. CHERUBINI, “Signori, Contadini, Borghesi”, cit., p.219.
71. G. PASQUALI, “Economia e società a Figline alla fine del Quattrocento”, Opus Libri 1990
72. Ibid. p.10: “alcuni appezzamenti di terreno posti nel comune di Castelfranco, popolo di S.Jacopo a Montecarelli, luogo denominato Faella, appezzamento che nel 1446 sono annoverati tra le proprietà dell’ospedale e che nel 1427 comparivano invece tra i beni di Antonio di Ristoro Serristori, ASF Catasto 638 c.26 e Catasto 72 c.29 v.”;
“Genealogia e storia della famiglia Serristori di Firenze”, L’Arte della Stampa-Succ.Landi, 1924, p.28/9.
73. G. PASQUALI, cit., p.21, n.14.
74. Ibid. p.21.
75. Ibid. p.21, n.17.