Poesia & Poeti
Nazim Hikmet
Nazim Hikmet nasce a Salonicco il 20 novembre 1902.
Studia nel liceo francese di Galatasaray (Istanbul) e all'Accademia della Marina militare.
Nel 1919 pubblica la prima poesia: “Jeni Mècmua”.
Nel 1920, in Anatolia, si schiera con l'esercito di liberazione di Kemal Atatürk.
Nel 1921 espatria clandestinamente e va a Mosca.
Nel 1922 pubblica il poemetto “Anatolia”.
Rientra in Turchia nel 1928. Condannato alla prigione per il suo ritorno irregolare viene amnistiato nel 1935.
Nel 1930 a Instanbul, uscirono le raccolte di versi: “835 versi”, “La Gioconda”, “Varan 3”, “1+1=1” e, nel 1935,
“Ritratti e Lettere a Taranta Babù”.
L’ultima sua opera pubblicata in Turchia è del 1936: “L’epopea dello sceicco Bedrettin”, mentre la sua poesia
“Alle porte di Madrid” è diffusa clandestinamente tra le forze armate.
Nel 1938, è condannato dai tribunali militari turchi a trentadue anni di prigione per le sue attività anti-naziste e
anti-franchiste e per essersi opposto alla dittatura di Kemal Ataturk.
In carcere scrive molte poesie, due drammi satirici, e il poema epico “Panorami umani”.
A causa della campagna mondiale per la sua liberazione, il governo turco è costretto a rilasciarlo, nel 1950, in
libertà vigilata.
Sotto la minaccia di nuovi arresti, nel 1951, espatria clandestinamente e torna a Mosca. Scrive “Ma è mai esistito Ivan Ivanovic?”, satira contro il burocratismo. Pubblica due drammi satirici e numerose raccolte di poesie, che vengono tradotte in molte lingue.
Muore a Mosca nel 1963.
Nazim Hikmet nasce a Salonicco il 20 novembre 1902.
Studia nel liceo francese di Galatasaray (Istanbul) e all'Accademia della Marina militare.
Nel 1919 pubblica la prima poesia: “Jeni Mècmua”.
Nel 1920, in Anatolia, si schiera con l'esercito di liberazione di Kemal Atatürk.
Nel 1921 espatria clandestinamente e va a Mosca.
Nel 1922 pubblica il poemetto “Anatolia”.
Rientra in Turchia nel 1928. Condannato alla prigione per il suo ritorno irregolare viene amnistiato nel 1935.
Nel 1930 a Instanbul, uscirono le raccolte di versi: “835 versi”, “La Gioconda”, “Varan 3”, “1+1=1” e, nel 1935,
“Ritratti e Lettere a Taranta Babù”.
L’ultima sua opera pubblicata in Turchia è del 1936: “L’epopea dello sceicco Bedrettin”, mentre la sua poesia
“Alle porte di Madrid” è diffusa clandestinamente tra le forze armate.
Nel 1938, è condannato dai tribunali militari turchi a trentadue anni di prigione per le sue attività anti-naziste e
anti-franchiste e per essersi opposto alla dittatura di Kemal Ataturk.
In carcere scrive molte poesie, due drammi satirici, e il poema epico “Panorami umani”.
A causa della campagna mondiale per la sua liberazione, il governo turco è costretto a rilasciarlo, nel 1950, in
libertà vigilata.
Sotto la minaccia di nuovi arresti, nel 1951, espatria clandestinamente e torna a Mosca. Scrive “Ma è mai esistito Ivan Ivanovic?”, satira contro il burocratismo. Pubblica due drammi satirici e numerose raccolte di poesie, che vengono tradotte in molte lingue.
Muore a Mosca nel 1963.
ALLA VITA
La vita non è uno scherzo. Prendila sul serio come fa lo scoiattolo, ad esempio, senza aspettarti nulla dal di fuori o nell’al di là. Non avrai altro da fare che vivere. La vita non é uno scherzo. Prendila sul serio ma sul serio a tal punto che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate, o dentro un laboratorio col camice bianco e grandi occhiali, tu muoia affinché vivano gli uomini gli uomini di cui non conoscerai la faccia, e morrai sapendo che nulla é più bello, più vero della vita. Prendila sul serio ma sul serio a tal punto che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi non perché restino ai tuoi figli ma perché non crederai alla morte pur temendola, e la vita peserà di più sulla bilancia. NAZIM HIKMET |
UN POETA PER TUTTI
La prima impressione che si ricava da una rapida scorsa alle poesie di Nazim Hikmet, ora uscite in traduzione italiana insieme con alcune sue opere di teatro (Editori Riuniti, Roma), è quella di un engagement portato all'estremo, cioè al limite del manifesto e della glorificazione politica. Non vorremo, proprio noi che ci siamo sempre espressi in favore di una piena indipendenza letteraria, essere più sartriani di Sartre: il quale, come tutti sanno, chiede l'impegno al romanziere, al drammaturgo, al saggista, al critico, ma non lo chiede al poeta. Il poeta è liberato, quasi per grazia divina (ma questo, naturalmente, Sartre non lo dice) da ogni responsabilità del momento; il poeta, insomma, è esente dal “servizio di guardia” cui ogni altro cittadino ha l'obbligo di partecipare in difesa dei principi ai quali crede. Ben inteso, nessuno può impedire ai poeti di prendere posizione quando lo ritengano necessario. E' perfino superfluo ricordare come la poesia del nostro Risorgimento abbia avuto - sia pure in buona parte fuori del piano estetico - un'importanza in certi casi decisiva. Il turco Nazim Hikmet, appunto, è di quelli che prendono posizione, per una necessità interiore e per una fede senza mancamenti. Le influenze esercitate su di lui dai simbolisti russi gli hanno, tutt'al più, indicato una possibilità letteraria; ma egli ha percorso la propria strada da militante deciso a raggiungere la mèta a qualsiasi costo. Il costo, come si sa, è stato durissimo: tredici anni ininterrotti di carcere, senza contare i tre anni di “anticipi” giovanili. Per queste ragioni, cioè per la perfetta sincerità delle idee e per il coraggio mostrato nel propagarle, anche i versi più cronachistici di Hikmet entrano in un alone politico, pur stentando talvolta a diventare vera poesia. Ma quello che a noi preme, dico a noi che chiediamo alla poesia di superare ogni barriera programmatica, non è tanto l'alone, non la luce riverberata, quanto la luce nella propria sorgente. Hikmet non è un propagandista in versi, è essenzialmente un poeta, l'uomo che soffre e trae dalla propria sofferenza l'accento umano del dolore, del desiderio di vita e, soprattutto, della speranza. Il mondo che sta attorno a lui, che lo affascina o lo soffoca, può apparire ai suoi occhi meraviglioso oppure obbrobrioso; ma ciò che è in lui, e che egli stesso non vuole definire (le parole cuore, anima, spirito sono infatti cosi logorate dall'abuso fattone per millenni, di aver quasi paura a scriverle), ciò che è in lui come un dono, rimane la sola verità indiscutibile, o almeno da tutti accettabile. Fra le infinite, e tutte lacunose, definizioni che si possono dare della poesia, possiamo mettere anche questa: la poesia è ciò che non si discute, ciò che “ è “ (come il Dio degli Ebrei), anche se la sua presenza non si avvale della realtà visibile. Abbiamo scritto un'altra parola abusata, e tuttavia sempre scottante: realtà. Un uomo come Hikmet non può non essere realista; ma anche il realismo, per non ridursi a mera formulazione teorica, richiede quell'impulso di cui si parlava prima: e decidiamoci pure, per brevità, a chiamarlo spirito. Diciamo che Hikmet è di quelli che della realtà non vogliono godere i frutti più ghiotti (come accade invece fra gli “spiritualisti” benestanti e gaudenti che pullulano nel nostro mondo), ma che la realtà stessa vogliono rendere migliore: migliore per tutti i viventi. E' di quelli che amano la terra; e l'ama al punto da rattristarsi al pensiero che forse fra un miliardo di anni la terra potrebbe sparire; ma l'ama anche come una creatura umana, non come una vigna d'uva, buona da far vino con cui ubriacarsi. Proprio in questo abbandono agli affetti terrestri sta il contenuto più alto della sua poesia La Lettera alla moglie, in questo senso, così come molte parti di quel poema della sofferenza e dell'attesa che si intitola Lettere dal carcere, sono poesia senza altri attributi. E qui anche la purezza dell'uomo raggiunge un'intensità poetica assoluta. Quanto alla forma, essa tende alla comunicazione immediata, rinunciando non soltanto alla tradizione aulica ma anche ad ogni sperimentalismo destinato a reinventare se stesso. D'altra parte nessuno più di Hikmet ha proclamato di voler essere capito da tutti, anche dagli stranieri: perciò la sua sintassi poetica forse ancor più della sua lingua, conserva la propria efficacia e la propria immediatezza in qualsiasi traduzione. Ma anche in questo caso l'impegno programmatico della chiarezza avrebbe un valore relativo se non ci fosse il poeta. Il poeta trova sempre la parola giusta; qualche volta, non contento della prima scoperta, ne cerca altre più cariche di significato; mentre in rari casi la riduzione alla massima semplicità collima con l’isostituibilità. Quel che conta è il risultato. Siamo contrarissimi a coloro che vorrebbero fare il processo alla poesia degli “intelligenti”; e pei noi Valéry rimane una delle apparizioni più straordinarie del nostro tempo. Ma siamo anche contrari a coloro che nutrono troppi sospetti contro gli intuitivi (ricordiamo, per precisione, che Nazim Hikmet non è soltanto un intuitivo; e in una poesia egli parla dei “libri intelligenti” come di una delle poche salvezze terrene). Se l'accostamento di Valéry e Hikmet può comunque sembrare paradossale, si tenga conto che questi nomi rappresentano le due possibilità estreme della poesia contemporanea: o la decifrazione lenta e tuttavia esaltante del mistero racchiuso nel Verbo, o il messaggio non cifrato, leggibile a prima vista, diretto a tutti i viventi. Ma questi nomi personificano anche le due aspirazioni estreme dell'umanità: l'individuo e la società. Come prendere posizione? E' il dramma di tutti, oggi. Per conto nostro, siamo persuasi che non si può distruggere né un estremo né l'altro. L'esistenza perderebbe di valore senza lo slancio individuale, senza la ricerca di tutte le possibilità conoscitive: dalla “sintassi come facoltà dell'anima” di Valéry alla creazione geometrica di Klee e alla memoria a dilatazioni concentriche di Proust; senza insomma la prepotente audacia intellettuale della prima metà di questo secolo. A tutto ciò non possiamo rinunciare, anche perché tutto ciò, presto o tardi, diventerà patrimonio comune a tutti gli adepti della cultura (eravamo in venticinque, trent'anni or sono, consenzienti o dissenzienti, ad aver letto l'Ulisse di Joyce; ora, in un mese, dell'edizione italiana di Mondadori si sono vendute parecchie decine di migliaia di copie. Nessuna opera - purché abbia una carica rivoluzionaria autentica - può rimanere a lungo ignorata). Ma la società, come si è andata amalgamando, e come sempre più si amalgamerà, non potrebbe sussistere senza la comunicazione collettiva immediata. Da una parte, dunque, rimane la sublimazione, dall'altra la redenzione. Per questo noi, che abbiamo rivolto i nostri voti a una poesia dove più alto rifulgesse il valore supremo della solitudine, oggi salutiamo uno dei maggiori poeti dell'”umana compagnia”. Giorni oscuri o vividi di misteriosi bagliori si alternano sulla terra. I poeti possono interpretarli. Ascoltiamoli, anche se i loro presagi ci trovano qualche volta dubitosi. La libertà del dubbio è fra le ultime alle quali vorremmo rinunciare, ma la loro parola più profondamente immersa nel presente, la parola della naturale e soprannaturale redenzione, a quel dubbio non può prestarsi. Tanto il poeta che dolorosamente si chiede il perché della vita, e si sente agghiacciare sulle labbra qualsiasi risposta, quanto il poeta che afferma l'efficacia della vita per se stessa, ci tolgono da questo orrido nichilismo che è, oggi più che mai, il lasciarsi vivere, senza nulla chiedere e nulla sperare. G.B. ANGIOLETTI La Stampa 28/12/1960 |