Poesia & Poeti
Roma 1989
È avventizio il mio essere reale. Sleale è insistere su chi sono io. Il punto partenza e scontato - l'arrivo è certo nello stato attuale: morte come sostanza o strato finale di un cuore malato. Oh, vorrei rinascere, ritornare indietro ma non posso. Troppo ho peccato di peccati non miei, attribuiti a posteri, mancati inganni. Cerco amori nuovi, violente sere. Perdono chiedo a chi non amai. Forse verrò domani ad un prato verde, - e non sarò più solo. da "L'avversario", 1994 |
Opere di poesia di Dario Bellezza
Invettive e licenze, 1971 Morte segreta, 1976 (Premio Viareggio) Libro d'amore, 1982 Io, 1983 Colosseo Apologia di teatro, 1985 Serpenta, 1987 Libro di poesia, 1990 Gatti e altro, 1993 L'avversario, 1994 Proclama sul fascino, 1996 Poesie 1971-1996, 2002 Se viene la guerra Colosseo e altri luoghi, 2013 |
Come infilarsi nel potere letterario
LA TRISTE CARRIERA DEI POETI SENZA SOLDI E SENZA MECENATI
di DARIO BELLEZZA
La canzoncina di un poeta francese, Leo Ferré, dice: “I poeti sono strani tipi che vivono d’una penna/ e non vivono affatto secondo la stagione/. Sono strani tipi che fendono la nebbia/ a passi d’uccello sotto ali di canzoni…”. Ferré, che è un poeta minimo ma un bravo cantante, dà la misura precisa e inequivocabile di come la massa, dato che le canzoni sono destinate alla massa (tutta la musica, in genere, ormai) viva la poesia e soprattutto il personaggio poeta. Li vive appunto come fossero creature singhiozzanti e malinconiche, romantiche e povere, sentimentali e afflitte da un male oscuro che potrebbe essere proprio la poesia che si accompagna sempre allo “spleen” al disordine erotico, all’ubriachezza… La massa, feticcio inguaribile del nostro tempo, vive i poeti così (e i politici spesso non fanno eccezione a questa visione irreale del poeta e della poesia); mentre i poeti non si vivono per niente, se la ridono, prontissimi a giurare che la poesia non esiste, tranne la loro, forse. Insomma i poeti non esistono. Esiste, inequivocabile e folgorante, il Testo, la Scrittura che a loro resiste, alla loro voluttà oscena di inesistenza, di distruzione, di morte.
A detta di molti, nella vita, i poeti sono i meno poetici esseri che si possano mai incontrare: ma tutto ciò ha molta importanza? I pettegoli, i maniaci delle cronache letterarie, i saccentoni dell’alcova vorrebbero sapere, per esempio, con chi scopava Giacomo Leopardi; se Ranieri era il suo amante o solo un amico, se era vero che dormiva di giorno, e se ne andava in giro di notte. Ma si sa che stava sempre a letto, e divorava gelati, tutte cose importantissime, indubbiamente, ma che niente aggiungono al miracolo della sua poesia, da “L’infinito” a “La ginestra”… Certo, che importanza ha con chi scopava Leopardi? Non se lo chiede neppure Ugo Dotti, in questa silloge dell’epistolario leopardiano “Storia di un’anima” uscito ora per la Bur; insomma è importante o no? Oppure, con i professori, e anche con Pasolini (che dentro di sé rimase sempre tale nonostante tutti i suoi regolamenti dei sensi cattolici), possiamo affermare che la penultima poesia di Leopardi, appunto “La ginestra” (sublime e scritta mentre divorava gelati e imperversava il colera) è la poesia inaugurale di un intero modo di far poesia (che io rispetto e seguo): di un universo stilistico così completo e complesso da avere i suoi sotto-universi gergali talvolta opposti fra di loro.
E non sapremo mai però con chi faceva l’amore Leopardi, il che mi sembra importante quanto lo studio delle varianti da affidarsi ad un allievo del professor Binni… Insomma sarà pure importante sapere che “La ginestra” prefigura e include tutto un modo di far poesia, che non appartiene né alla categoria del plurilinguismo dantesco né a quella del monolinguismo petrarchesco, e questo è un tema che meriterebbe un intero ciclo di studi a cui dedicare la propria vita; ma tutto ciò appunto non interessa chi invece si rivolge al pettegolezzo provvisorio della vita del poeta (pettegolezzo in cui sono eccezionali gli inglesi) o a chi come Platen (contemporaneo di Leopardi e poeta insigne della Germania) ce lo descrive nel suo diario, incontrandolo a Napoli nel 1834, come l’uomo più sordido e sporco della terra, una larva umana… Né ci importa (o ci deve importare, chiediamo illuminazioni ai professori) come il poeta viveva, e dove trovava i soldi per tirare avanti, una volta sganciatosi dal carrozzone degli ambienti letterari milanesi e fiorentini, attraverso i quali, con i suoi vari lavori filologici della prima giovinezza, cercò di sopravvivere e guadagnare qualche soldo. Di qui la prostituzione perenne con l’editore Stella che da un suo ammiratore diventò atroce aguzzino lesinandogli il soldo per pagare le svariate camere dove il poeta visse finché non trovò uno straccio di Ranieri che lo ospitò.
Insomma, diciamolo, Leopardi visse delle elemosine del padre Monaldo e di Ranieri… Oggi sarebbe stato lo stesso? Ecco la domanda lancinante che si pone a tutti noi. E se per fare qualche esempio, Montale per vivere in passato fece prima il bibliotecario al Viesseux, da dove fu cacciato perché non volle prendere la tessera del partito fascista, e in seguito lavorò come redattore al “Corriere”, inviato musicale e critico, invece Sandro Penna si arrangiò durante la guerra facendo la borsa nera, e solo alla fine della vita riuscì a crearsi un piccolo mondo di scambi con i quadri, insomma mercante d’arte in piccolo: tutto ciò sta a dirci, a spiegarci che nessuno mai dei grandi poeti del Novecento visse, se non era ricco, vendendo le proprie poesie, come invece fanno i pittori con i loro quadri.
Forse oggi la situazione è cambiata in meglio e non è più così sconsolante e derelitta? Forse oggi Saba non sarebbe costretto a fare l’antiquario di libri? No, io sono pessimista: l’unica novità per i poeti che non siano impiegati dello Stato, cioè professori di scuole medie o d’Università, o consulenti o direttori editoriali, sta nella lettura di poesie in pubblico che ha una lunga tradizione nella cultura anglosassone, e culmina non solo nel geniale Dylan Thomas, ma nei readings degli americani come Allen Ginsberg o Ferlinghetti, veri poeti milionari che cavalcano la tigre del successo, girando per il mondo da un Festival all’altro… In Italia questa moda ha attecchito da poco, un po’ di soldi si sono visti, l’ostilità degli ambienti accademici, o dei pochi poeti laureati ancora viventi è stata forte, sentendo che con uno strumento come la lettura in pubblico sfuggiva loro non tanto il controllo del mercato (la vendita di libri di poesia essendo anche per colpa degli editori scarsa) quanto quella della pubblicazione che in Italia avviene solo per cooptazione in una corporazione, quella appunto dei poeti... Si sa che chi pubblica fuori del circuito editoriale “milanese” è spacciato: può solo sperare di essere scoperto dopo morto.
Giovanni Mariotti un po' di tempo fa, in un articolo su “L'Espresso” che nessuno ha commentato e che aveva una sua sottile, agghiacciante perfidia, tracciava la carriera del poeta dai suoi esordi con uno spirito altamente balzacchiano. All'inizio, per fare carriera, bisognerà pubblicare sulle riviste più accreditate come “Nuovi Argomenti” e “Paragone”, o, sul fronte avanguardistico, “Il Verri”. Questo dopo i vent'anni. Dopo la pubblicazione del primo libro si cercherà di vincere un premio, di essere messi in qualche antologia; e col secondo pubblicato da un grande editore si cercherà di vincere il Viareggio, o uno un po' meno prestigioso, il Gatti o il Carducci, il Brutium o il Martina Franca (prima c'era anche l'internazionale Etna-Taormina, divorato da qualche burocrazia...) Dopo i quarant'anni il poeta pubblicherà in economica, avrà i critici più autorevoli che scrivono prefazioni su di lui, e avviandosi alla vecchiaia potrà aspirare ai Lincei e al Nobel. In Italia Quasimodo e Montale hanno ottenuto l'ambito riconoscimento, e per averlo bisogna fare parecchi viaggi in Svezia, diventare amici di Osterling, segretario del premio, essere lì tradotti, e in Italia avere parecchi castori (monografie) all'attivo.
Sandro Penna, che sfuggiva a tutte le conventicole letterarie pure, si era assoggettato a questo cursus honorum, e così fanno i giovani poeti che contano... Sarà triste, ma è così: l'apparato del Potere Letterario dell'epoca capitalistica si connota come imposizione di una ben ponderata confusione stilistica: a ciascuno il suo (a me la parte facile o difficile, secondo i casi o le circostanze, di maledetto); ad ogni poeta la parte che gli spetta, la poetica che gli piace, i critici che lo ammirano. Almeno questo è avvenuto dal tempo ormai lontano della Voce, primo Novecento, quando i Vati sono stati buttati via (la famosa triade, Carducci, Pascoli, D'Annunzio), i poeti si sono imborghesiti, e non vale neppure la tessera di qualche partito a dare questo crisma di Vate, a meno che qualche nuovo dittatore non costringa i poeti a riscrivere poesie ermetizzanti...
Gli anni Settanta sono stati ormai congedati, e il congedo più preciso lo ha dato l'Antologia del Porta, eclettica e fuori serie, dove veniva istituzionalizzata la mimesi stilistica, oppure veniva data ragione a tutti, ma con l'idea sottintesa dell'emarginazione progressiva, nel mondo moderno, della poesia, proprio mentre si pensa che i poeti facciano notizia o stiano per diventare ricchi... Sì, ripeto, l'uso capillare dei Mass-media, o le letture in pubblico, una rubrica sui giornali possono fare qualcosa, indubbiamente, sostituire le rapine americane di borse di studio, e l'ospitalità nei Campus... Ma ripeto, di versi non si vive: la poesia non la compra nessuno; anche se la crisi editoriale oggi investe anche le enciclopedie. Chi compra più infatti quegli strumenti fasulli e appiccicosi che sono le moderne enciclopedie?
Dario Bellezza